Una lettura “di genere” del documento finale del Sinodo sui giovani

di Emilia Palladino
docente di Etica della famiglia e condizione femminile
Università Gregoriana

 

Il documento finale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, che si è tenuta a Roma dal 3 al 28 ottobre 2018, contiene tanto in positivo quanto in negativo le caratteristiche di un testo ricavato da procedimenti collegiali impegnativi e faticosi, propri dei meccanismi sinodali a cui ha dato impulso nuovo papa Francesco.

Ogni numero – in totale sono 167 – è il frutto di discussioni e di adattamenti voluti dall’assemblea sinodale e ha avuto l’approvazione definitiva del suo inserimento nel documento finale, da almeno i 2/3 di quanti avevano diritto al voto. I placet e i non placet per ciascun numero sono riportati alla fine della stesura del testo del documento, cosicché la comunità ecclesiale possa usufruire anche dei vantaggi di una considerevole trasparenza nei meccanismi delle votazioni sinodali.

Una tale composizione del testo presenta alcune caratteristiche che, al netto di ogni possibile considerazione oggettiva, in realtà complicano una sua recezione totalmente positiva, qualora si voglia leggere il documento finale con una “visione di genere”. Alla ricerca cioè di elementi, affermazioni, proposizioni, proposte che evidenzino le conseguenze di una presa d’atto della differenza di genere, all’interno del tema più ampio del Sinodo.

È un’evidenza, infatti, che nell’età giovanile la differenza di genere sia percepita e vissuta in modo più netto che da adulti, proprio perché è l’età della confusione, dell’attesa di una definizione, della scoperta di sé, del proprio corpo “differente”, della propria sensibilità “differente”, dei propri desideri “differenti”. Mai come da giovani si è maschi e femmine, ragazzi e ragazze: lo sviluppo puberale poi, nei tempi, nei modi e nella percezione, è diversissimo, eppure simile in alcune sue espressioni esistenziali, fra i due sessi.

Va detto subito che nel documento di questo non c’è alcuna traccia. Dal punto di vista letterario è usato ovunque – tranne che in un solo numero, come dirò poi – il maschile come neutro universale: un’unica categoria connotata sessualmente per ricomprendere entrambi i generi, senza alcuna distinzione. Anche se il maschile come neutro universale è il “genere” della stragrande maggioranza dei documenti del magistero, nel documento sinodale è una presenza ingombrante, fastidiosa, e inopportuna, proprio per il tema di cui tratta: i giovani. Anche i numeri che esplicitamente trattano della sessualità non hanno una connotazione che espliciti la differenza di genere; anzi, al n. 39 (e anche altrove in verità) la differenza di genere è inserita come una richiesta dei giovani per comprendere meglio la loro realtà. Pare tautologico: un sinodo sui giovani in cui i giovani chiedono al sinodo di offrire chiarimenti su di loro …

Un altro elemento che da un lato presenta una forte positività, dall’altro un certo disagio all’interno di una lettura “di genere”, è la presenza e l’uso del termine “donne” e suoi derivati nel testo. Sicuramente si deve registrare da parte del sinodo una novità rispetto al passato: le donne, nel documento finale, ci sono. E ad esse sono riconosciuti dignità, ruoli e funzioni – anche a cui finalmente accedere, come la responsabilità ecclesiale – in modo netto e chiaro, come una sorta di acquisizione definitiva. E questo, lo ribadisco, è un dato positivo.

Tuttavia, la stessa citazione del termine e i luoghi in cui è inserita e i modi, lasciano un senso di incompletezza e di insoddisfazione: da una parte per l’evidenza che l’assemblea sinodale è a maggioranza maschile (e sappiamo quanto il voto alle donne sia stata una questione molto combattuta soprattutto all’esterno), dall’altra come un inizio per il quale però non sia stata definita la strada da percorrere, lasciata quest’ultima al discernimento delle comunità ecclesiali. Dato anche questo positivo, ma solo in linea di principio: la distanza fra il linguaggio del magistero e la realtà delle comunità ecclesiali sia nella maggioranza dei casi abissale e, a tratti, siderale. In altri termini, nel documento si legge una (pallida) rappresentazione di come le cose dovrebbero essere pensate e svolte, ma là rimane, quasi come “lettera morta”.

Per illustrare questa situazione riprendo l’unico numero del testo il cui il titolo si riferisce esplicitamente al genere: il 148, le donne nella Chiesa sinodale. È l’unico numero in cui viene abbandonato il maschile come neutro universale e senza sottintesi è scritto che i giovani e le giovani chiedono «con grande forza» che la Chiesa finalmente rifletta «sulla condizione e sul ruolo delle donne al proprio interno, e di conseguenza anche nella società».

Tuttavia non appena si affronta il dovere di giustizia per cui «Le riflessioni sviluppate richiedono di trovare attuazione attraverso un’opera di coraggiosa conversione culturale e di cambiamento nella pratica pastorale quotidiana» riguardo soprattutto all’ambito particolarmente importante della «presenza femminile negli organi ecclesiali a tutti i livelli, anche in funzioni di responsabilità, e della partecipazione femminile ai processi decisionali ecclesiali», l’assemblea sinodale sente il dovere di aggiungere «nel rispetto del ruolo del ministero ordinato».

Ed è proprio in questa aggiunta, nei suoi toni e nei suoi presupposti culturali, che sembra trovare esplicitazione un atteggiamento che non smette di essere eccessivamente guardingo e che scambia per prudenza – e abusando, senza alcuna vigilanza, di un termine dal grande valore spirituale – una forma di ingiustificabile sospetto sulle donne e di allontanamento delle donne dalle dinamiche ecclesiali che “fanno” la comunità, relegandole ad una forma implicita di collaborazione (“se non ci fossero loro …”) per non doverne esplicitamente e “ufficialmente” mostrare il preziosissimo contributo.

Ma non va dimenticato che tutto ciò che non si vede, è nascosto, è sommerso, è implicito, potrebbe finire per nascondere situazioni di abuso e di sfruttamento, che anche nella Chiesa sappiamo essere presenti. È solo “gridando sui tetti” che la Chiesa può rompere i meccanismi dell’insabbiamento e, più semplicemente, dell’ovvietà di dare tutto per scontato. Con quale giustificazione la Chiesa chiede – ad esempio – l’emersione del lavoro nero come dovere di giustizia, se non accetta l’emersione al suo interno del contributo ineludibile, e ben più valente di com’è attualmente, delle donne credenti?

Auspico che su questi – e altri – punti nevralgici per la Chiesa di oggi non solo si rifletta, ma si parli esplicitamente, e si agisca. Far passare altro tempo, troppo tempo, fra ciò che si evidenzia giusto (ricordo l’espressione dei vescovi: è un «dovere di giustizia») e il renderlo “atto concreto”, nuoce a tutti i credenti e a tutta la Chiesa e può frustrare in modo definitivo le intenzioni di una più autentica conversione sia di chi è al suo interno, sia di chi è al suo esterno.

Articoli simili