Testimonianza 3: la diversa dignità delle vocazioni maschili e femminili
Sono cresciuta in una famiglia impegnatissima nella pastorale familiare, le mie estati erano tra un campo estivo per famiglie e l’altro, sono cresciuta pregando con la preghiera delle Ore e ascoltando Lectio divinae ero una privilegiata in un certo senso. I miei genitori venivano dall’esperienza di AC e innamorati del Concilio, eppure a un certo punto ho iniziato a notare qualcosa: mia madre non aveva mai nascosto di desiderare un figlio prete, ma allo stesso modo non aveva mai fatto nulla per impedirmi di percepire la scarsa considerazione che aveva per la vita religiosa femminile e questa consapevolezza fu una batosta per me quando ho iniziato a pensare alla consacrazione. Quando ho deciso di farmi suora ho capito che per lei era una magra consolazione rispetto alla scelta di mio fratello di sposarsi. Aveva interiorizzato talmente tanto la minorità femminile nella Chiesa da non volere sua figlia lì dentro. Ho iniziato il mio cammino di vita religiosa con le consapevolezze di una donna di 25 anni, laureata e cresciuta in una scuola di gesuiti, quindi con una formazione discretamente solida, così quando ho iniziato a frequentare una scuola intercongregazionale per novizie ho avuto la seconda grande batosta. Alla prima lezione il sacerdote che doveva introdurci alla teologia fondamentale ci salutò con un “buongiorno sorelline” e iniziò a parlare come se avesse a che fare con un gruppo di bambini in età pre-scolare, peccato che fossimo tutte oltre i 25 anni, in gran parte laureate e con precedenti esperienze di lavoro. L’avrebbe certo saputo se ci avesse chiesto di presentarci, ma d’altronde eravamo solo “suorine”. Negli anni ho sperimentato sulla mia pelle il senso di superiorità dei seminaristi che incontravo, di gran parte dei preti con cui collaboravo, ma anche il disagio che provavano nel vedere che io non ero affatto impressionata dalla loro condizione o dai loro studi teologici. Quando ho lasciato la congregazione e sono tornata a casa ero convinta che l’esperienza di “minorità” dovuta al fatto di essere donna fosse finita, invece l’ho sperimentata anche sul lavoro (per caso, o forse no, svolto in una realtà sociale d’ispirazione cristiana) e nelle varie fasi della mia vita: quando mi sono fidanzata e ho fatto il corso di preparazione al matrimonio, quando mi sono sposata e ho frequentato delle associazioni cattoliche che fanno formazione alle coppie, quando ho avuto la bambina e sono stata coinvolta in gruppi di mamme. Non solo come donna valevo meno, ma dovevo anche subire l’imposizione di un modello di brava moglie e mamma cristiana, ora che mi ci trovavo dentro. Era insopportabile. Così – come ho sempre fatto nella vita – ho cercato la mia strada alternativa e mi sono rimessa a studiare il femminismo che avevo amato in adolescenza e gioventù e a riflettere sul come tenerlo insieme alla mia fede. Inizialmente mi sentivo molto sola, ma ora ho trovato tante sorelle che camminano con me e considero importante lavorare su questi temi anche perché ho una bambina e non voglio che lei viva quello che ho vissuto io. Amo sempre questa Chiesa così com’è e non le chiedo di essere perfetta, vorrei soltanto che fosse veramente madre anche di noi figlie femmine.