di Rita Torti
(da Esodo n. 4/2017)
La relazione fra i presbiteri e le donne, che attraversa tanto i rapporti personali quanto le dinamiche allargate all’interno della comunità, è soggetta a numerose variabili, a una pluralità di condizionamenti legati alla cultura, alle situazioni concrete e anche al mutare della comprensione teologica e pratica del ministero e della sua collocazione rispetto all’insieme della chiesa.
Da un lato, quindi, sfugge a ogni generalizzazione. Non per questo, tuttavia, essa perde la sua rilevanza e il suo statuto proprio: quello di essere innanzitutto – considerata la riserva maschile del presbiterato – una relazione di genere.
Proprio in quanto tale essa ci riporta al tema prete-comunità, ma “per un’altra via”, perché il rapporto tra il prete e le donne, nel suo effettivo svolgersi, ha sempre a che fare anche con quello tra il prete e gli altri uomini, da una parte, e con quello fra gli uomini e le donne della comunità dall’altra. Laici e laiche, infatti, sono accomunati dallo “status” battesimale, ma al tempo stesso i laici e i preti condividono l’appartenenza allo stesso sesso e hanno quindi a che fare con costruzioni di genere analoghe.
Dall’intreccio di questi due diversi “insiemi”, che possono migliorarsi reciprocamente o saldarsi in funzione regressiva, scaturisce il modo in cui tanto i ministri ordinati quanto le donne e gli uomini della comunità si percepiscono e si pongono in relazione con il “tu”, che è sempre anche un “tu” sessuato. Così è stato nei due millenni che abbiamo alle spalle, così è anche oggi. Le brevi note che seguono vanno collocate in questo orizzonte anche se, per ragioni di spazio, si focalizzano – e accennandone solo alcuni aspetti – sul tema “il prete e le donne”.
Come mi immagino, come ti immagino
C’è sempre, nell’incontro fra persone, un “già pensato”, una sorta di schema inconsapevole in cui provvisoriamente collochiamo la realtà che ci viene incontro. Le precompressioni con cui ogni individuo si orienta nel mondo scaturiscono dalla sua specifica biografia, ma attingono anche a un repertorio collettivo profondamente radicato e in grado di condizionare la percezione fino, non di rado, a far velo alla realtà.
Il disagio di tante donne spesso nasce proprio dal sentire su di sé, da parte dei preti, uno sguardo troppo carico di immaginari in cui non possono riconoscersi. Non è una novità di oggi, certamente: dai secoli passati ci sono pervenute molte testimonianze dello scollamento fra il “già pensato” del clero rispetto al sesso femminile e quanto invece le donne intuivano di sé e del mondo pur trovandosi in condizioni di pesante marginalità e reclusione sociale. Oggi questa distanza risulta sempre più irricevibile, sebbene nel discorso dell’istituzione ecclesiastica “sulla donna” si sia passati dall’infirmitas antropologica, intellettuale e morale all’esaltazione del genio femminile e della sua immensa responsabilità rispetto alla conservazione dell’umanità in una storia costantemente a rischio di dis-umanizzazione. Il problema, infatti, è che – come molte cattoliche di ogni condizione notarono fin dall’uscita di Mulieris Dignitatem, e come oggi si scrive apertamente perfino sull’Osservatore Romano, la mitizzazione in positivo non è una reale alternativa alla misoginia dei secoli passati: entrambe tradiscono la realtà, entrambe prescindono da ciò che le dirette interessate sentono e pensano di sé, entrambe conducono a considerare il femminile come qualcosa di sostanzialmente “altro” rispetto alla norma – che con tutta evidenza rimane, anche quando è implicita, l’uomo – e dislocato rispetto al concreto farsi storico.
Credo che, tanto per i presbiteri quanto per le donne, prendere maggiore consapevolezza dell’esistenza di questo immaginario e delle sue articolazioni, portarlo alla luce, confrontarsi con i suoi effetti possa essere molto utile ai fini di una riconfigurazione dei rapporti che sia adeguata umanamente e più aperta al vangelo, e che si liberi il più possibile dall’ipoteca patriarcale che ancora non pare tramontata.
“La Chiesa è maschilista”
Il problema infatti non è che i presbiteri non diano spazio alle donne nelle comunità: la predominanza femminile tra coloro che partecipano attivamente alla vita delle comunità parrocchiali, già ampiamente attestata nel secolo scorso, è ormai proverbiale: più di una volta è stato notato che se le donne decidessero di “scioperare”, le porte delle chiese, delle aule di catechesi e delle attività caritative rimarrebbero chiuse; e non si tratta certo di ambiti di poco conto. Da dove viene, allora, l’idea diffusa e radicata, condivisa da moltissime cattoliche, che la chiesa sia una realtà maschilista?
Soprattutto per chi ne parla dall’esterno, la questione è prevalentemente connessa all’esclusione delle donne dal ministero ordinato. Il che è certamente vero, come è vero – da anni le teologhe studiano e scrivono in questo senso – che non è più possibile pensare che l’identificazione tra presbiterio e maschilità sia naturale, innocente e innocua, che non abbia una storia teologica e pratica, o che sia facilmente risolvibile con i sermoni sulla necessità che le donne non sia facciano tentare da “rivendicazioni di potere”, o con i falsi sillogismi per cui concentrarsi sulla questione non farebbe che rafforzare proprio il clerico-centrismo che si vuole contrastare.
Per chi è all’interno, nella quotidianità della vita comunitaria, c’è però anche dell’altro.
C’è ad esempio la percezione della difficoltà di molti presbiteri a porsi in un rapporto veramente paritario con le sorelle nella fede. Con gradazioni infinite, questo problema si riscontra molto spesso, ed è esperienza frequente che non sia in via di risoluzione: non di rado, anzi, i preti che hanno vissuto il Concilio appaiono molto più in grado di stare in rapporti di reciprocità rispetto a quelli più giovani, che pure hanno di solito alle spalle periodi più lunghi di consuetudine con le donne prima della scelta di entrare in Seminario.
Donne di oggi e preti di domani
Credo che ci si dovrebbe confrontare su cosa scatta in un giovane uomo che fino a pochi mesi prima ha lavorato in un ufficio gomito a gomito con colleghe di pari o superiore competenza e responsabilità, e che magari ha avuto anche relazioni di coppia, nel momento in cui entra nel percorso di formazione verso il presbiterato. Come mai queste esperienze non sembrino incrinare l’antico paradigma di prete “sacro”, separato, bastevole a se stesso nonostante la sua parzialità sessuata, e non di rado proprio in forza di essa.
Come mai quello che era l’amico con cui fino a poco prima si condivideva l’impegno in parrocchia, o il giovane di cui, da adulte, si è state educatrici si ponga da un giorno all’altro in un modo completamente diverso, e per il solo fatto di essere in Seminario si rivesta di un’invisibile tonaca d’altri tempi. Che nel suo sguardo, nei gesti, nelle parole lo vediamo in un batter d’occhio proiettato verso una maschilità grazie alla quale, in forza del ministero ordinato, recupererà almeno in parte quel “dividendo di genere” socialmente sempre meno legittimato e presentabile, e sempre più incompatibile con l’evoluzione della coscienza delle donne e l’affermarsi della loro presenza autorevole e autonoma negli spazi sia pubblici che privati.
Il futuro del rapporto fra preti e donne passa anche da qui, e mi parrebbe importante riflettere su come la formazione dei seminaristi tenga conto di questa realtà. La Ratio fundamentalis “Il Dono della vocazione presbiterale”, pubblicata nel 2016, è al riguardo piuttosto interessante.
Del nostro tema si occupa espressamente al n. 95, relativamente alla “matura capacità relazionale con uomini e donne, di ogni età e condizione sociale” del futuro presbitero. Per il rapporto tra il seminarista e le donne il testo rimanda espressamente (e assai significativamente) agli “Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale” emanati dalla Congregazione per l’educazione cattolica nel 1974, in cui l’accento era ovviamente posto sulla “custodia” della scelta celibataria, sulla cautela da attuarsi rispetto alle “amicizie particolari” con il sesso femminile e rispetto alla “ricerca (da parte del sacerdote) di compensazioni affettive”, che “può essere favorita anche dal semplice fatto che le donne ‑ con le quali il sacerdote ha rapporti in forza del suo ministero ‑ sono portate a confidarsi con lui, anche perché il suo stato celibe suscita fiducia; esse talvolta ricercano, presso di lui, un appoggio maschile”.
Tuttavia, nel quadro non mancava la prospettiva dell’attività pastorale, e si insisteva perché gli alunni, “bene istruiti sul loro (delle donne) specifico carattere e sulla loro psicologia a seconda del diverso stato di vita e le diverse età, nell’adempiere il ministero pastorale possano offrire loro una cura spirituale più efficace e si possano comportare con quella sobrietà e prudenza che conviene ai ministri del Cristo”. Anche la relazione con la propria famiglia, si legge nel testo del ’74, è utile per “conoscere particolari aspetti della psicologia femminile”.
Il riferimento alla famiglia è presente anche nella Ratio fundamentalis del 2016: “In essa la presenza della donna accompagna tutto il percorso formativo”; alla crescita integrale del seminarista – si aggiunge – “molto contribuiscono anche le diverse donne che, con la loro testimonianza di vita, offrono un esempio di preghiera e di servizio nella pastorale, di spirito di sacrificio e di abnegazione, di cura e di tenera vicinanza al prossimo”. Più avanti, al n 151, si legge: “La presenza della donna nel percorso formativo del Seminario, o tra gli specialisti, o nell’ambito dell’insegnamento, dell’apostolato, delle famiglie o del servizio alla comunità, ha una propria valenza formativa, anche in ordine al riconoscimento della complementarità tra uomo e donna. Le donne rappresentano spesso una presenza numericamente maggioritaria tra i destinatari e i collaboratori dell’azione pastorale del sacerdote, offrendo un’edificante testimonianza di umile, generoso e disinteressato servizio”.
L’immagine che ci viene proposta da questo autorevole e recentissimo documento è quella uno sguardo a senso unico e decisamente connotato, in cui le donne sono oggetto di discernimento e guida spirituale da parte del presbitero, ma il reciproco non è previsto; in cui la psicologia femminile è riassunta in ciò che si è capito dal proprio ambiente familiare, senza alcuna problematizzazione e contestualizzazione; in cui “femminile” è sinonimo di cura, abnegazione, servizio, umiltà.
Ma almeno a partire dal Concilio Vaticano II le cattoliche stanno pubblicamente segnalando, a tutti i livelli, come questi siano crinali molto scivolosi, funzionali a un ordine asimmetrico e gerarchico, che lasciano in un cono d’ombra tutto quanto, nella vita delle credenti, è frutto di intelletto e di scienza anche teologica, di libertà, di autorevolezza e di parresia, come anche di sofferenza, umiliazione e – direbbe papa Francesco – servidumbre imposte e causate dagli uomini.
E’ molto difficile che questa impostazione aiuti di preti di oggi e di domani ad uscire da quanto, nella costruzione della maschilità occidentale che hanno assorbito, è antitetico all’evangelo di Gesù, in parole e opere. Ed è molto difficile che, calandosi in questo modello presbiterale possano essere in grado di guardare le donne negli occhi e iniziare a parlare con loro, e invece che parlare di loro.
Prima degli Scrutini
Nel punto in cui illustra gli “Scrutini” periodici a cui devono essere sottoposti i candidati al presbiterato, la Ratio fundamentalis elenca fra l’altro (n. 205-d) “una relazione da chiedere a coloro presso i quali il candidato ha svolto il servizio pastorale”, e precisa: “potrebbe rivelarsi utile anche l’apporto di donne che abbiano una conoscenza del candidato, integrando nella valutazione lo “sguardo” e il giudizio femminile”.
E’ significativo che fra i “coloro” della prima parte del periodo non siano evidentemente comprese le donne, e che il loro sguardo e giudizio sia – come da consolidato copione – “integrativo”. Ma ancora più significativo sarebbe sapere cosa scriverebbero le donne.
Forse, prima di arrivare a relazioni sui singoli casi, sarebbe l’ora di confrontarsi francamente, come Chiesa, su questo rapporto tra donne e preti, che può essere – e non di rado lo è – arricchente, solidale, reciproco, limpido, rispettoso non a parole, libero da preconcetti e capace di compassione per le ferite che ciascuno e ciascuna si porta dentro. Ma che sicuramente, visti i presupposti, non nasce “spontaneamente” così: va curato, irrigato e continuamente liberato dalle erbacce e dai parassiti.