La creazione dell’Umano – Gen 1,26-28 (prima parte)
di don Luciano Locatelli
Fornire una sorta di commento a questi versetti estrapolandoli dalla complessità armonica di tutto il racconto della creazione costituisce un limite. Il rischio è, come sempre, quello di concentrare l’attenzione sul singolo dettaglio perdendo l’insieme della costruzione. Tuttavia il narratore stesso ci viene in aiuto perché questo breve racconto della creazione di Ha ’adam, che traduciamo con “essere umano” o “umanità”, è costruito in maniera un po’ differente rispetto al resto del racconto che precede.
Balza agli occhi, per esempio, il fatto che Elohim parli usando il pronome plurale “noi” (tre piccole lettere che hanno generato fiumi di inchiostro: dall’evocazione della Trinità intravista dai Padri al plurale “maiestatis” visto da altri, dal “mumble mumble” di chi pensa tra sé e sé alla visione mitica del testo in cui si ipotizza il Creatore a consulto con la sua corte celeste).
Dal punto di vista letterale siamo davanti a una parola che annuncia un doppio progetto (v26) la cui realizzazione incompleta (v27) è seguita da una benedizione in cui il Creatore chiede all’umano di fare la sua propria parte (v28). La prima domanda, ovviamente, riguarda la curiosità circa quel plurale: perché Elohim usa il “noi”? Usare il plurale fa supporre la presenza di un interlocutore. Chi dunque? Inoltre, assistiamo anche a un cambio di verbo. Dall’iniziale “facciamo” (‘asah) al plurale, si passa al “creare” (bara’) al singolare (il verbo bara’ nella Bibbia ebraica non ha il significato di “creare dal nulla”, bensì di “fare del nuovo, del mai visto” ed ha sempre ed esclusivamente Dio per soggetto). Si pone la domanda: perché questo cambiamento di verbo e di numero?
Un’altra diversità da notare si situa nel modo in cui Elohim parla dell’umano. Egli usa due termini: “immagine” (sélém) e “somiglianza” (demut), che non sono per niente sinonimi. In ebraico sélém indica una rappresentazione concreta, un’immagine tipo scultura, statua, una sorta di ritratto. Il secondo termine, demut, trae la sua origine dal verbo “damah” che significa “essere come, somigliare”. Questo indica la relazione tra due realtà che possono essere paragonate nel loro aspetto, tipo copia e originale. Arrivati qua ecco sorgere un altro interrogativo: al v28 il nostro narratore ci dice quel che Dio compie e lo fa utilizzando due volte il termine “immagine”. Ma, ci chiediamo, dove è andata la “somiglianza”?
Un’ulteriore differenza si nota tra il progetto iniziale-esecuzione e l’introduzione della precisazione, da parte del narratore della qualifica di “maschio e femmina” (e non “uomo e donna” come tante volte si è tradotto e ancora oggi si sente spesso dire in giro). L’uso di “maschio e femmina”, infatti, è voluto poiché la sottolineatura avvicina gli umani più agli animali che a Dio. Infatti, la differenziazione “maschio-femmina”, vale tanto per gli umani che per gli animali.
Un’ultima osservazione. Alla fine di questi versetti sembrerebbe mancare qualcosa. In effetti, a queste parole del racconto non fa seguito il ritornello: “E Dio vide: che è bene!”. Ora, a questo punto del testo paiono più le domande che le risposte.
Proviamo a fornire qualche risposta, cominciando proprio dall’ultima variazione, cioè dall’assenza del ritornello. Quest’assenza ricorre anche alla fine del secondo giorno (andate al testo, please). La maggior parte degli esegeti è concorde nel ritenere che l’omissione del ritornello è indizio di un’opera incompiuta. La presenza di una “volta” (v8) in mezzo alle acque non rende di per sé uno spazio abitabile. Occorre che la “secca” (la terra) emerga dalle acque in basso, nel terzo giorno. Questo è ciò che permette il risuonare del ritornello: “… Che è bene!”.
Ora, se l’assenza del ritornello rimanda a incompiutezza, questo non può valere forse anche per l’umano? Supponendo questo allora potremmo comprendere il motivo della scomparsa della “somiglianza”: l’umano è portatore certamente dell’immagine di Dio ma essa è incompiuta, non ancora somigliante. Questo perché l’uomo si avvicina più al mondo animale nella sua sessualità non raffinata (“maschio-femmina”). In un certo qual modo è come se l’umano fosse sospeso tra divinità e animalità (v27: “e Elohim creò l’umano in sua immagine, in immagine di Elohim lo creò, maschio e femmina li creò”). È come se il narratore stesse dicendo al suo lettore che l’umano non somiglia a Dio perché è ancora più vicino all’animale. Il cambiamento del pronome, dapprima singolare e poi plurale, è un segnale da non sottovalutare: a immagine di Elohim l’umanità è “una” (lo creò) ma come gli animali è anche plurale (li creò).
Pertanto, se è vero che l’umanità, come io credo, esce “incompiuta” dalle mani di Dio, allora il narratore ci sta dicendo che quando Elohim crea l’umanità egli non fa che realizzare la parte che gli spetta, in quanto è l’unico a poter “creare” (nel senso biblico di cui sopra). Rimane tuttavia ancora del “non-fatto”. E chi lo farà? Chi, “facendo”, lavorerà per completare l’opera di Colui che crea a sua immagine? Chi permetterà a quell’ “immagine” di diventare somigliante, umanizzando ciò che ancora l’uomo condivide con l’animale? Forse è proprio l’umano stesso. Dicendo “facciamo” Elohim non parla a se stesso bensì agli umani che va creando con la sua parola e, in senso narrativo, ai lettori di oggi, chiamandoli a diventare cooperatori, con il loro “fare”, all’opera della creazione per farla giungere a compimento.
Fine della prima parte. Continua.
Fin qui il progetto di Dio. Non si spiega pero il seguito della Bibbia se, insieme con il racconto della creazione, non si tiene conto anche di quello della caduta, soprattutto di quello che viene detto alla donna: Moltiplichero i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sara il tuo istinto, ma egli ti dominera (Gen 3,16). Il predominio dell uomo sulla donna fa parte del peccato dell uomo, non del progetto di Dio; con quelle parole Dio lo preannuncia, non lo approva.