Il coraggio di…

Sollecitazioni, riflessioni, istanze a partire dall’ Indagine indipendente sugli abusi ad opera di chierici nella diocesi di Bolzano-Bressanone, nell’ambito del Progetto “Il coraggio di guardare”. (tutte le informazioni e la Perizia Indipendente a questo link: Diocesi Bolzano-Bressanone )

A poco più di un mese dalla pubblicazione e presentazione della Perizia ci pare opportuno mantenere alta l’attenzione su quanto è emerso. Lo faremo pubblicando, da oggi e periodicamente, alcune riflessioni suscitate dal Report, attraverso la prospettiva di “donne nella chiesa”.

di Stefania Manganelli

Premessa: Non potrei parlare di abusi nella Chiesa senza fare riferimento alla mia storia personale, e sono peraltro stupita di quanto molte delle considerazioni, analisi, ricostruzioni contenute in questo Report rispecchino profondamente la mia esperienza. Un’esperienza purtroppo non isolata, ma condivisa con altre donne, nell’associazione, di diverse parti d’Italia. L’incontro con Donne per la Chiesa (e successivamente con altre donne di associazioni o gruppi collegati), infatti, non solo ha rafforzato la mia consapevolezza e autocoscienza, ma mi ha inserito in una rete di esperienze e vissuti simili ai miei. Con questi scritti non intendo certo essere autoreferenziale, ma desidero dare voce a un sentire condiviso.

  1. Il coraggio di parlare: Le donne non tollerano il fenomeno e non accettano il silenzio sugli abusi

Nelle prime pagine (pag. 21) si legge: “… a rivolgersi al Centro indipendente di ascolto per testimoni e persone offese sono state in gran prevalenza donne. Questo dato è tanto più notevole se si considera che non si trattava assolutamente “solo” di persone direttamente coinvolte bensì semplicemente di soggetti che non intendono tollerare il fenomeno degli abusi sessuali e, in particolare, non vogliono accettare che questi aspetti vengano sottaciuti o trattati in modo inadeguato. A parere dei relatori, si è di fronte a un elemento senz’altro interessante…”  

Quando, nel 2021, scrissi una lettera a Papa Francesco per chiedere provvedimenti a carico del vescovo che, nonostante sollecitazioni (da parte di donne) non era intervenuto sul caso di un prete autore di abusi, qualcuno (della parrocchia) mi disse che “ero stata coraggiosa”. No, non mi sentivo “coraggiosa”, ma solo non disposta ad accettare silenzi o inerzie di fronte ai drammi che le persone stavano vivendo nella chiesa locale. Purtroppo non ho trovato supporto e sostegno dalle altre donne (pur coinvolte) della parrocchia, oltre al “brava, bene, grazie” iniziali. Non avevo particolari aspettative, però ho cominciato a chiedermi quanto l’accettazione di silenzi o inerzie (per un senso di indefessa devozione al clero) sia stata e sia “complice” del sistema di silenzi e inerzie che coprono gli abusi. Credo e continuo a credere nell’importanza della parola, della presa di parola delle donne, tacitate per troppo tempo nella Chiesa: la dignità e l’autorevolezza della parola non si fondano sul genere o sull’aver ricevuto il sacramento dell’ordine, ma sulla verità e sulla sostanza di ciò che viene comunicato.

  1. Il coraggio di riconoscere che si tratta di cause sistemiche derivanti (anche) da una sessualità immatura dei preti.

Un intero e molto articolato capitolo del Report viene dedicato alle “Cause sistemiche delle carenze riscontrate”.

A pag. 279-280 si legge: “In un’ottica di appropriata analisi dei casi di abuso sessuale non va ignorato, in particolare, il quadro delle condizioni sistemiche e/o istituzionali quantomeno corresponsabili di una carente gestione dei casi e dei rapporti con le persone coinvolte. …. Da respingersi con veemenza è ogni tentativo, peraltro non a priori escludibile, teso a indicare gli atti ora venuti alla luce come azioni di singoli “autori isolati” o di “pecore nere”. Un respingimento che è ancor più giustificato alla luce della gestione molto carente mostrata dai responsabili diocesani nel trattare siffatti casi. La circostanza che a dette autorità, e non solo limitatamente alla Diocesi di Bolzano-Bressanone, debbano assolutamente contestarsi gravi carenze commesse in questo contesto (una realtà emersa anche nel quadro di altre indagini condotte dai relatori in tale ambito) non lascia infatti spazio all’ipotesi di trovarsi di fronte al fallimento di singoli individui. La circostanza impone contestualmente di chiedersi, invece, se e in quale misura sia constatabile, almeno fino al 2010, un generale fallimento del sistema (cattolico). Una riflessione di questo tipo non solleva tuttavia i singoli dalle responsabilità, se non in misura solo limitata.

Fa eco a queste affermazioni la potente lettera (qui allegata) di Clelia degli Esposti (del Laboratorio Reinsurrezione – per S-velare e fermare ogni abuso, di cui anch’io faccio parte, in rappresentanza – con altre – di Donne per la Chiesa) “Uno sguardo femminista sul Progetto Il coraggio di guardare in cui si legge: “gli abusi tutti non sono casi eccezionali, non vanno letti come sindromi psicopatiche sfuggite al controllo; sono invece espressioni “fisiologiche” di un sistema la cui anima è una struttura gerarchica, dove vige il principio di obbedienza e segretezza e dove si annida e alimenta “naturalmente” il pervertimento di sentirsi onnipotenti e invincibili. Il fatto che le vittime siano donne non può essere letto in un quadro di perversione morbosa, come spesso si fa, ma come l’ennesima manifestazione del dominio maschile, che si dispiega come potere kiriarcale. Non sarà l’offerta dei ruoli dirigenziali, spesso specchietti per le allodole, che potrà porre fine al dominio patriarcale, ma sarà il riconoscimento della autorità femminile come imprescindibile componente nella vita della Chiesa e più in generale della società.

Il Report classifica le cause sistemiche in tre categorie:

  1. Cause sistemiche causanti o quantomeno favorenti le molestie sessuali ad opera dei chierici
  2. Cause sistemiche della copertura da parte dei responsabili diocesani
  3. Cause sistemiche della copertura a livello locale

Nella prima categoria (1) viene individuata, tra le altre cause, una sessualità immatura e la mancanza di strategie di gestione della propria sessualità, citando a tal proposito la formazione sacerdotale nel contesto seminariale.

Mio figlio è entrato in seminario a 19 anni, ne è uscito 3 anni dopo. Mi addolora profondamente ripercorrere quel periodo in cui ho sofferto tantissimo, nel constatare quanto l’ambiente seminariale influisse negativamente sulla formazione umana dei ragazzi.

Ma altre esperienze, che rileggo ora con lucidità e autocoscienza, mi hanno confermato quanto “la sessualità immatura e la mancanza di strategie di gestione della propria sessualità” possano influire addirittura sulla spiritualità, sulla coscienza, sulla “mentalità” di noi donne, quando ci affidiamo ai preti/vescovi/chierici come guide spirituali. Ho cominciato a nutrire perplessità quando, al prete che consideravo la mia guida spirituale (e confessore), avevo chiesto aiuto (spirituale) nell’affrontare una vicenda coniugale: avevo sentito la sua incapacità di calarsi nel cuore della vicenda, la sua estrema distanza dagli aspetti relazionali della situazione, aspetti che per me non potevano separarsi dalle “implicazioni” spirituali. Nella profondità spirituale che gli riconoscevo, sentivo la sua “immaturità” riguardo l’aspetto sessuale/relazionale, dovuto anche (per quanto percepivo) all’esclusione di questo aspetto nella sua formazione, prima, e nella sua esperienza di vita, poi. A tal proposito si legge a pag. 289: La tabuizzazione quasi totale espressa nella posizione della Chiesa sulla sessualità, ovvero una visione latente negativa e pessimistica, oltre che esplicitamente unilaterale della sessualità, genera per la Chiesa e le sue autorità grandi difficoltà a trovare parole con cui esprimersi su quanto accada.” e ancora (pag. 292) “Questa incapacità espressiva e questa verecondia volute dalla Chiesa ne comportano … una limitazione …. Questa impotenza, anche da parte dei dignitari di alto rango, è documentata in modo tanto impressionante quanto scioccante dalla … dichiarazione del Vescovo Egger, il quale a colloquio con una testimone dei fatti ammetteva di non sapere proprio come comportarsi con quel sacerdote accusato (cfr. caso 5).

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