Su Dignitas infinita

Noi, Donne per la Chiesa, diverse e unite per una Chiesa equa, abbiamo letto e riflettuto personalmente e in gruppo sulla Dichiarazione Dignitas Infinita e desideriamo condividere il nostro sentire e pensare. Una condivisione che avviene dopo un tempo appropriato di meditazione, al fine non di re-agire bensì di pro-agire, consapevoli delle visioni e dei sogni che ci nutrono come donne cattoliche.

Prima di tutto vorremmo mettere in luce un desiderio profondo che ci abita tutte, cioè quello di una Chiesa che sappia generare parole e prassi profetiche, leggendo il presente a partire dal sogno di un futuro che sentiamo emergere, dentro e fuori di noi. Il desiderio di una comunità ecclesiale non più preoccupata di dottrine che si premurano di categorizzare le persone, ma protesa ad una visione profetica che sappia dare anima alla voglia di esserne parte.

Appare perciò evidente che non possiamo evitare di criticare il metodo di redazione di questo documento che viene (im)posto come dottrina non discutibile per affrontare le varie e complicate situazioni della vita umana, con un approccio del “si deve / non si deve”, così lontano dall’orientamento alla misericordia e al “cammino con”.

In buona sostanza, avvertiamo che si disconosce la realtà della Chiesa – quella grande, quella fatta da laiche e laici, da religiose e religiosi, e dal clero – come popolo in cammino nel quale le diverse idee e sensibilità si riconoscono nell’unico grande faro guida che è il messaggio evangelico.

Questo documento, pertanto, ci responsabilizza ancora di più, forti della nostra dignità battesimale, ad essere quella Chiesa profetica che non ritroviamo all’interno delle sue pagine.

Entrando appena un po’ nei dettagli, è doveroso dire che la parte iniziale del documento è apprezzabile, con la premessa dell’amore indistinto del Padre verso tutte le persone e la sottolineatura di come la dignità vada riconosciuta in ogni ambito. È un bene che la Chiesa promuova la dignità umana, perché tutte e tutti sappiamo quanto essa sia stata e sia, in ogni tempo e luogo, ostacolata, minacciata, calpestata (anche dalla Chiesa stessa). E’ altresì lodevole lo sforzo di utilizzare una terminologia inclusiva nel riferirsi alla “persona umana” invece che all’ “uomo”.

Tuttavia, si avverte poi un cambio di passo: spuntano infatti categorizzazioni e distinguo che si contrappongono al concetto di dignità come dimensione universale imprescindibile.

Emerge il forte valore dato ad un’ipotetica legge naturale avulsa dalla complessità della persona umana, quasi ad affermare che la vita è uno spazio definito e predeterminato da abitare obbligatoriamente così com’è e che la dignità non è uno spazio di libertà, ma di obbedienza a un ordine naturale ereditato, al quale siamo esclusivamente chiamate e chiamati a dire sì (n. 25 e n. 66). Ma siamo convinte che la persona umana sia fatta di corpo e sentimenti, di passione e ragione che formano un tutt’uno.  Riteniamo non possa più essere accettabile il concetto di dualità corpo fisico e anima spirituale.

Le distinzioni teoriche che vengono proposte in alcuni passaggi ci sono apparse molto difficili se non impossibili da realizzare nella vita reale: ad esempio, nel caso della omosessualità, come distinguiamo tra propensione ed esigenza costitutiva? Quali sono i criteri che determinano l’una o l’altra?

Ci pare nuoccia molto alla credibilità degli autori l’affermazione arbitraria e platealmente non vera contenuta al n. 3 “Fin dall’inizio della sua missione, sulla spinta del Vangelo, la Chiesa si è sforzata di affermare la libertà e di promuovere i diritti di tutti gli esseri umani”.

Non solo la Chiesa talvolta ha contraddetto nei fatti nel corso dei secoli questa affermazione ma, quantomeno nel mondo occidentale, ha faticato non poco a tenere il passo con i progressi della società civile in termini di riconoscimento della dignità e dei diritti delle persone (per non parlare del rapporto con il creato, considerato a servizio della persona umana, più che un tutt’uno con essa).

Abbiamo rilevato che su temi che interrogano pesantemente il credente e non solo, quali l’eutanasia e le persone lgbt, l’aborto, non si fa alcun riferimento alle riflessioni teologiche che pure ci sono state e sono in corso e non si spendono parole di comprensione, empatia e accoglienza.

Al breve punto n. 43, dedicato agli abusi sessuali (non abbiamo trovato menzione di quelli spirituali), ci abbaglia la totale assenza di parole di contrizione per quanto avvenuto sistematicamente in seno alla Chiesa e per la connivenza con la società patriarcale che ha perpetrato per secoli gli abusi con il suo beneplacito (es. dovere coniugale).

La condanna tout court della cosiddetta “teoria dei gender”, mostra la non conoscenza del tema e appare pretestuosa.

Come donne, siamo come sempre colpite dalla condanna delle violenze verso di noi (esclusivamente) in quanto madri e nonne silenziose che portano avanti la vita. Abbiamo anche altri ruoli nella società e soprattutto abbiamo dignità in quanto persone umane, anche quando non madri.

Infine, una riflessione a partire dal punto 11, dove leggiamo che “entrambi (uomo e donna), nel loro mutuo rapporto di uguaglianza e vicendevole amore, espletano la funzione di rappresentare Dio nel mondo e sono chiamati a custodire e coltivare il mondo”. Tuttavia, mentre tutti i cristiani possono “incarnare” Cristo, ricevendo il suo corpo e il suo sangue con l’eucaristia, e quindi possono vivere e agire come il Cristo, alle donne non è consentito “rappresentarlo” come il sacerdote rappresenta Cristo quando agisce “in persona Christi”.

Se, da una parte, ci sentiamo profondamente deluse e rattristate dalle argomentazioni delineate in questo documento (emanato addirittura dal Dicastero per la dottrina della fede), dall’altra riconosciamo che la nostra parola di critica costruttiva può e deve responsabilmente abitare la Chiesa, che sentiamo sempre più “nostra”, cioè di tutte, di tutti, di tutt*!

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