DONNE DELL’ESODO: le madri d’Israele
di Stefania Ioppolo
La presenza delle donne nell’Esodo è fondamentale, ancora una volta Dio si serve di chi è giudicato ultimo nella società per portare avanti il suo progetto di salvezza: dalle levatrici, a cui è dato il compito di accogliere la vita, passando attraverso altri personaggi femminili che rappresenteranno, di volta in volta la Vigilanza, la Cura, la Dedizione e che potremmo definire le “madri dell’esodo”. In ogni loro intervento metteranno sempre al di sopra di tutto l’amore per la vita e la fede in Dio, notevole se pensiamo che molte di esse non erano nemmeno ebree.
In questa storia è poi presente un altro elemento simbolico e tutto femminile, l’acqua, che accoglie, nutre, salva, vivifica, ristora, purifica: è l’acqua che aiuta a nascere, l’acqua del fiume che in cui viene posta la culla di Mosè, l’acqua delle lacrime della madre e della sorella, le acque del mar Rosso che si aprono al passaggio, l’acqua donata a Miriam che vivifica la fede appassita degli Israeliti nel deserto; dovunque è si accompagna sempre alla misericordia di Dio.
Le levatrici d’Egitto
“Il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina potrà vivere»” ( Es 1,15-16).
Il mestiere della levatrice era in Egitto molto stimato e sviluppato, tutto al femminile, che aveva il compito fondamentale di accogliere la vita, momento sacro per ogni cultura.
Il narratore fa conoscere il loro nome per mettere in risalto chi è che conta agli occhi del Signore. Sifra e Pua, donne di origine egiziana, rifiutandosi di obbedire a Faraone riconoscono innanzitutto la superiorità di un Dio nemmeno lontanamente paragonabile a quello che vorrebbe essere il faraone stesso, e rappresentano la prima grande testimonianza di fede, quella che non fa temere nemmeno di perdere la propria vita davanti al rifiuto di obbedire all’ordine di un capo che aveva potere di vita e di morte, dimostrando un amore per la vita che è fondamentalmente amore per Dio e le sue creature, al di sopra di ogni religione, di ogni cultura e di ogni idolatria .
“Ma le levatrici temettero Dio : non fecero come aveva ordinato loro il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini”.(Es 1, 17-18)
Il timore di Dio che hanno le levatrici non è paura di una punizione, cosa che hanno dimostrato di non avere disubbidendo al faraone ma è, invece, un profondo rispetto per la vita. Le levatrici non creano e non danno ordini, il loro compito è quello di essere semplicemente al servizio della vita, aiutando e consolando la madre nel momento del parto e accogliendo il bambino appena nato nelle loro braccia ; rendere servizio alla vita è rendere servizio al Dio creatore .
La disubbidienza delle levatrici è il primo passo che renderà possibile la liberazione del popolo ebreo e la nascita del popolo d’ Israele attraverso la nascita di Mosè.
Da un punto di vista simbolico le levatrici che devono guardare tra le due sponde del sedile del parto, anticipano la nascita del popolo d’ Israele che dovrà passare attraverso le due muraglie d’acqua nel mar Rosso.
Yochebed la coraggiosa
“Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio, vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi.“(Es 2, 1-3)
Simbolo di tutte le madri coraggiose è la mamma di Mosè, Yochebed , sposa di Amram figlio di Levi e di Melcha. Nel Talmud, l’altro libro sacro dell’ebraismo, viene identificata con Sifra, una delle due levatrici al quale il faraone ordinò di impedire la nascita dei bambini ebrei; il premio che Dio avrebbe promesso a essa per aver disobbedito ai comandi del monarca era appunto il fatto di divenire madre di grandi due personaggi della storia ebraica, Aronne e Mosè. Dopo la nascita del bambino è costretta a tenerlo nascosto per tre mesi perché il re, dopo il fallimento del tentativo di infanticidio ad opera delle levatrici, riprova ad eliminare i bambini ebrei ordinando agli egiziani di buttarli nel Nilo.
Per questa madre saranno stati tre mesi vissuti nell’angoscia di vedere continuamente il bambino in pericolo, ad ogni vagito, ad ogni pianto.
Eppure, forse è proprio l’amore viscerale che lega la madre al figlio, più che la disperazione, e la speranza di vederlo salvo, che le da il coraggio di costruire una cesta di papiro di porre Mosè in quella culla improvvisata, lasciata scivolare lentamente nel Nilo affidando il bambino a Dio. Quante saranno state le lacrime di quella madre che si sono mescolate all’acqua del fiume, e quante le sue preghiere!
Miriam vigilante e custode
“ La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto”.(Es 2, 4-5)
Il Signore , da dietro le quinte o meglio da dietro i giunchi, vigila attraverso gli occhi di una bambina di dieci anni. È Miriam , la sorella maggiore di Mosè, che segue il cammino della cesta con lo sguardo probabilmente appannato dalle lacrime per aver visto la madre costretta a lasciare il fratellino in balia delle acque ; dimostrando tenerezza e responsabilità , la bambina mette in pericolo se stessa, così come avevano fatto le levatrici disubbidendo al faraone, nell’attesa di vedere cosa succederà al neonato.
È lei testimone e mezzo con cui Dio permette la salvezza di Mosè, attraverso una logica impensabile: l’adozione da parte della figlia del faraone e la intraprendente e tempestiva proposta da parte della bambina stessa di procurare una nutrice ebrea.
“Allora la sorella del bambino disse alla figliuola di Faraone: “Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che t’allatti questo bimbo?” La figliuola di Faraone le rispose: “Va’”. E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. (Es 2, 7-9)
Potremmo dire, dopo il danno anche la beffa per Faraone.
Miriam è la sorella che vigila con sapienza e discrezione, e avrà un ruolo fondamentale nella vita e nella missione di Mosè, che sarà affiancato in questa, appunto, da suo fratello Aronne e da sua sorella Miriam, con dignità pari a quella dei suoi fratelli all’interno della comunità.
La figura di Miriam la profetessa è importante non solo per Mosè, ma per tutto il popolo d’Israele e molti anni dopo la ritroviamo protagonista, insieme a suo fratello, di un episodio di notevole importanza; dopo che il popolo ebreo ha attraversato miracolosamente le acque del mar Rosso, trascina le figlie di Israele nel canto e nella danza:
“Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze” . (Es 15, 20-21)
Il suo entusiasmo, nonostante sia ormai novantenne, contagia e trascina l’intero corteo femminile a cantare e danzare in onore del Signore, manifestando così la sua fede nel Signore ed evitando che la festa degeneri in un autocelebrazione del popolo.
Alle donne la profetessa insegna questo ritornello:
“Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!” (Es 15, 21 )
Ma nonostante la sua fede e l’amore per suo fratello e per il suo popolo, anche Miriam non è perfetta; infatti sarà punita da Dio per aver parlato male, insieme ad Aronne, contro il fratello Mosè, a proposito del suo matrimonio (Nm 12), che la fa ammalare di lebbra. Piuttosto strano, in questo contesto, è il fatto che si ammali solo lei, donna, mentre il fratello, che pure aveva peccato di gelosia, viene risparmiato. Su intercessione di Mosè il Signore la guarisce, ma non prima di sette giorni, in cui dovrà vivere isolata da tutti; saranno per essa sette giorni di purificazione e saranno sette giorni di attesa per il popolo in cammino.
«Il popolo non riprese il cammino, annota la Scrittura, finché Miriam non fu riammessa nell’accampamento» (Nm 12,15).
Miriam sarà «aspettata», come lei aveva aspettato da bambina sulle rive del Nilo, finché la vita di Mosè non fosse in salvo; questa attesa voluta dal popolo che riconosceva in Miriam una profetessa di importanza pari a quella dei due fratelli, probabilmente fu fortemente voluta soprattutto dalle donne ebree , che avevano in essa la loro guida spirituale. Infatti Miriam «fu inviata» soprattutto per istruire le donne, esperta della Parola del Signore, esercitante il ministero a favore di altre donne del suo popolo. Di esse probabilmente si prende cura non solo sotto l’aspetto spirituale, ma anche fisico, dimostrando ancora una volta che la fede in Dio e l’amore per la vita sono al di sopra di tutto.
Ritorna qui la presenza importante dell’elemento acqua; infatti proprio la figura di Miriam nel deserto è associata al dono dell’acqua, un dono preziosissimo per chi si avventura in un territorio arido, così come arido può essere lo spirito di un uomo quando si trova in una condizione di difficoltà che può mettere in pericolo la sua vita, ribellandosi verso il Signore e abbandonando la fede. Simbolicamente l’acqua di Miriam rappresenta l’acqua della Parola che vivifica Israele durante il cammino nel deserto, soprattutto nel momento in cui il deserto si sviluppa nei loro animi e la fede comincia ad appassire.
Alla morte di Miriam l’acqua viene a mancare:
“Poiché il pozzo era stato donato per i meriti di Miriam, quando ella morì non ci fu più acqua per la comunità” (Nm 20 ).
La figlia del faraone
“Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse:<< è un bambino degli ebrei !>> ”( Es 2, 5-7)
Il Signore si serve sempre delle persone più improbabili per realizzare i suoi piani, addirittura la figlia del faraone stesso, scesa al fiume per bagnarsi nelle acque, che scorrendo verso di lei le portano la cesta con Mosè. È una donna pagana ma capace di pietà e misericordia per un bambino ebreo. Incurante degli ordini del padre sceglie di accogliere questo bambino portatogli dalle acque del fiume e di crescerlo come figlio suo.
La bellezza di Mosè, riconosciuta da sua madre alla nascita , non è la semplice bellezza che la madre vede nel proprio figlio, ma la bellezza universale della vita e di Dio attraverso la sua creazione, l’uomo!
Le donne al pozzo
È sempre vicino ad una fonte d’acqua che Mosè avrà un altro momento di rinascita. Cresciuto alla corte del faraone, ne ha acquisito i comportamenti e la logica, tanto da commettere un omicidio, seppure per salvare un uomo ebreo. Ciò lo porta a dover abbandonare tutto quello che ha avuto fino a quel momento, la ricchezza e il potere acquisito crescendo come egiziano. La sua fuga in Madian crea un’occasione di riscatto con la difesa di alcune donne straniere incontrate presso un pozzo:
“Ora il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse vennero ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difenderle e fece bere il loro bestiame.”( Es 3, 16-17)
Questo incontro con le figlie di Reuel, sacerdote madianita, rappresenta un anello di congiunzione tra il passato in Egitto e il suo futuro come pastore del popolo d’Israele. L’acqua è sempre accompagnata da una presenza femminile. Tra queste donne c’è la sua futura moglie, che avrà un ruolo fondamentale nel momento di accettare la sua missione. Zippora è probabilmente una donna di colore, viene definita un’etiope e di sicuro non è ebrea, a dimostrazione nuovamente che il Signore quando si tratta di compiere i suoi piani si serve delle persone più improbabili.
Zippora la sacerdotessa
“Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione.”( Es 4, 25-26)
In questo episodio così cruento si nasconde una dimostrazione d’amore molto grande, quella che farà finalmente rasserenare Mosè sull’esito della sua missione, che fino a quel momento lo aveva reso dubbioso e addirittura recalcitrante ad accettarla. Zippora, da moglie-sacerdotessa, compiendo l’atto di circoncisione del figlio e simbolicamente anche quello del marito, dimostra a questo punto la sua fede e completa adesione alla missione del marito, facendo in modo che si compia quell’ultimo passaggio della rinascita di Mosè, che diventa/ritorna ad essere ebreo grazie all’aiuto della donna che ha sposato, che ha avuto cura di lui, ma che soprattutto ha avuto fede in Dio e nella missione affidata al marito, mettendo anche in questo caso l’amore per la vita al di sopra di tutto.
La misericordia delle donne al servizio di Dio
Potremmo dire tante madri per Mosè: la sua vita è passata tra le mani, ma soprattutto nel cuore delle donne che sono state protagoniste nella sua vita, una carrellata di personaggi femminili che pur nel loro piccolo sono state capaci di dimostrare grandissimo amore, rispetto per la vita e per il Creatore , mettendo in molti casi a rischio la propria, di vita, perché si compisse il disegno di Dio, oltre le culture e le religioni diverse. È la stessa fede che ritroviamo nelle donne dei nuovi esodi, di quelle che vediamo nei barconi con i loro bambini in braccio o nel grembo, di quelle che come novelle Yochebed affidano i loro figli alle insidiose acque del Mediterraneo nelle culle-gommoni in balia delle onde, li accompagnano con la misericordia e la speranza di madri che cercano un futuro migliore per loro, confidando nella misericordia di chi questi loro figli li accoglierà come moderni figli di Faraone. È la fede delle donne in cammino attraverso le frontiere, che mettono in pericolo sé stesse sperando nella promessa di una terra che permetta di rigenerare la vita. È la stessa capacità di amare, di soffrire e di offrire misericordia che ogni donna, dall’inizio e fino alla fine dei tempi ha sempre avuto e sempre avrà; è il dono che il Signore ci ha fatto per poter essere per sempre riflesso della sua luce e al suo servizio.
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