Nato da donna
di Anna Rotundo
Scrive San Paolo: “… quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo
Figlio, nato da donna…” (Gal 4,4‐7). Questa affermazione, apparentemente
ovvia – perché da dove mai nasce un essere umano, se non da una donna –
qui è però riferita al Cristo e colloca quindi l’essere donne ad un ruolo fondamentale. Se l’apostolo avesse scritto “nato da Maria” , avremmo
pensato ad un dettaglio biografico. Ma avendo detto “nato da donna”, ha dato
alla sua affermazione una portata universale ed immensa, perché è la donna
stessa, ogni donna, ad essere elevata, in Maria, alla sua incredibile altezza.
Non c’è Dio incarnato senza la donna: il Concilio di Efeso (431) ne ebbe tanta
consapevolezza che i duecento padri presenti proclamarono all’unanimità
Maria, la Donna, “Theotòkos/Madre di Dio”.
L’autorevolezza della maternità è in quel suo evocare, quasi naturalmente,
una marcata esigenza religiosa, nel rimandare alla radice dell’esistenza dell’io,
che può solo ricevere la vita e renderne grazie. Questo rimandare ad un Altro
è già implicita evocazione di Dio e lega la maternità al divino (Giulia Paola di
Nicola). In questo senso la maternità deve essere vissuta spiritualmente anche
dagli uomini, perché esprime al massimo livello l’intenzione relazionale
dell’atto sociale attraverso il quale ciascuno dà se stesso, e quindi in un certo
senso si “svuota” per ospitare l’altro.
È questa l’umanità che scaturisce dall’Incarnazione di Gesù,
“nato da donna”: e la maternità diviene il codice dell’umanizzazione kenotica
e salvifica del mondo.