I PRONOMI DI DIO
Della teologa TINA BEATTIE (apparso originariamente su https://tinabeattie.substack.com/ in risposta alla notizia apparsa sul Daily Mail ) | nostra traduzione |
Come molti hanno sottolineato, il linguaggio maschile del culto e della teologia ha fallito nel riflettere la ricca gamma di immagini e metafore che troviamo nelle Scritture. Consideriamo ad esempio questi due versetti consecutivi in Isaia 42, 13-14:
13 L’Eterno avanzerà come un eroe, ecciterà il suo ardore come un guerriero; manderà un grido, sì, un grido lacerante; trionferà sui suoi nemici.
14 «Per lungo tempo sono stato in silenzio, ho taciuto, mi sono contenuto; ma ora griderò come una donna che ha le doglie di parto, respirerò affannosamente e sbufferò insieme.
Quando il profeta descrive Dio in terza persona come “lui” il versetto è ricco di immagini maschili, cariche di testosterone. Ma nel versetto successivo, Dio parla in prima persona come una donna che partorisce, silenziata e soffocata. A volte mi chiedo se l’intera storia del cristianesimo si regga proprio sul contrasto tra questi due versetti: l’interprete maschile che proietta i propri concetti di un Dio guerriero e violento sulla rivelazione e la voce del Dio materno e partoriente che lotta per essere ascoltata in mezzo alle grida della guerra religiosa, letterale e metaforica.
Queste immagini contrastanti invitano a un approccio fluido, giocoso e poetico al linguaggio teologico. Dio è sempre negli spazi vuoti dove gli opposti polari resistono all’abbraccio, nascondendosi fuori dalla portata concettuale, all’interno di accoppiamenti paradossali (parola/carne, vergine/madre, umano/divino, maschio/femmina).
Mi chiedo cosa accadrebbe se resistessimo alla tentazione di oggettivare Dio implicita nella ricerca di pronomi appropriati, perché tutti i pronomi sono in qualche modo oggettivanti. Indicano che la persona di cui si parla non è un “tu”, ma un punto di riferimento, un argomento di discussione, un oggetto. Cosa succederebbe se i teologi si rivolgessero a Dio solo con il “tu”, seguendo l’esempio di molti salmi e di molte mistiche medievali (più propriamente dette teologhe vernacolari)? Tutta la teologia diventerebbe allora un dialogo con Dio e non un dibattito su Dio.
Nelle Lettere dal campo di Westerbork, prima della sua deportazione ad Auschwitz, Etty Hillesum scrive: “La mia vita è diventata un dialogo ininterrotto con Te, o Dio, un grande dialogo”.
La teologia potrebbe essere scritta come dialogo – come preghiera – in modo da evitare del tutto l’ansia dei pronomi? Potrebbe essere una modalità in cui scrivere un’écriture féminine teologica? Penso che ci proverò. Questo mi porta a chiedermi se la moltiplicazione di categorie conflittuali e contestate di identità e appartenenza di genere (ogni genere sembra essere diventato un individuo in cerca di una comunità!), non sia un grido dal cuore di una cultura che non ha più comunità, una cultura che ha perso la capacità di chiedersi “Chi sei tu?”. Ognuno deve essere un terzo oggettivato – un lui, una lei o un loro – e mai un tu. Forse, come nella leggenda del Santo Graal, non siamo più in grado di guardare in faccia il ferito e chiedergli: “Cosa stai soffrendo?”.
Come spesso accade nelle mie riflessioni, questo mi riporta a Simone Weil:
La pienezza dell’amore per il prossimo è semplicemente la capacità di porre la domanda: “Qual è la tua agonia?”. È sapere (riconoscere) che gli afflitti esistono, non come unità in una collezione né come esempio di una categoria sociale etichettata come “gli afflitti”, ma in tutta la loro umanità, esattamente come noi, che sono stati impressi e segnati da un marchio inimitabile, dalla loro afflizione. Per questo motivo, è sufficiente ma anche indispensabile saperli guardare in un certo modo.
Questo sguardo è innanzitutto uno sguardo attento, in cui l’anima si svuota di tutti i propri contenuti per accogliere in sé l’essere che sta guardando così com’è, in tutta la sua verità. Ed è capace di questo, solo se è capace di attenzione.
L’altro sofferente incarna sempre un mistero impenetrabile, ma anche un invito all’incontro e alla compassione.
Abbiamo smesso di prestare attenzione? È questa la radice di tutte le nostre contorsioni e dispute linguistiche? Nella nostra cultura di individualismo sempre più atomizzato e frammentato, non sappiamo più guardare il nostro prossimo, chiedere: “Qual è la tua agonia?”. E così un grande grido alla ricerca di attenzione si alza dal nostro interno: “Io sono la vittima. Io sono quello che soffre più degli altri”.
Come ci ricorda Nina Power, la sofferenza è intrinseca alla condizione umana, ma il vittimismo distrugge la nostra capacità di riconoscere e rispondere all’altro che soffre.
Il vittimismo oggi è diventato paradossalmente uno strumento molto potente e potenzialmente pericoloso. È molto, molto più difficile, ma assolutamente necessario, iniziare non con il desiderio di classificare le vittime, ma piuttosto con la comprensione del fatto che tutti soffrono, e cercare di trovare il modo migliore per ridurre al minimo questa sofferenza per tutti, il che richiede un’attenta e adulta negoziazione.
Il cuore della fede cristiana è il Dio vulnerabile e sofferente. Per incontrare questo Dio, basta saper chiedere: “Qual è la tua agonia?” a colui che si presenta in tutte le forme che il Dio incarnato assume: il neonato senza padre, il bambino rifugiato, il lavoratore manuale, il vagabondo senza casa, la vittima torturata, il tradito, il crocifisso. In questi, Dio è sempre “tu”,
perché Cristo suona in diecimila luoghi,
Bello nelle membra e bello negli occhi che non sono i suoi.
Al Padre attraverso i lineamenti dei volti degli uomini.
(Gerard Manley Hopkins, As Kingfishers Catch Fire)
Forse le chiese devono abbandonare tutti i loro discorsi su Dio e permettere che la loro vita liturgica diventi un grande dialogo con Dio, che si riversi e soffra tutte le nostre relazioni con quell’amore che vede gli altri non come terze persone oggettivate, ma come “tu”, e che ha la coraggiosa attenzione di chiedere: “Qual è la tua agonia?”.